martedì 26 aprile 2016

paolo - rev02

La luce del sole filtra attraverso le persiane chiuse, mettendo in risalto la figura perfetta della ragazza, in piedi, nuda davanti a lui, mentre si versa da bere. Sdraiato sul letto, Paolo riesce a vedere anche il sudore che le imperla i contorni del corpo.
A quell'ora l'afa è quasi insopportabile. La si combatte solo rimanendo in casa, all'ombra, nella speranza che il mare faccia arrivare qualche refolo di vento. Ci penserà il solito temporale delle 17 a rinfrescare l'aria fino a sera inoltrata, quando va bene.

La Giamaica: chi l'avrebbe mai detto. Fino a poco tempo fa Paolo era il timido ragazzo di provincia, cresciuto sotto la presenza ingombrante di una donna single, abbandonata dall'uomo che amava e per questo restia a qualsiasi tipo di contatto umano, se non quello di una ristrettissima cerchia di persone composte sostanzialmente dalla propria madre e dalla sorella. Era cresciuto in un circolo di comari dal sorriso tirato.
Non si era mai inserito del tutto, né al liceo, né altrove. Ma neanche si era sentito escluso; stava nel suo, insomma. I compagni di squadra lo trattavano bene perché era un difensore arcigno, capace di dare l'anima sul campo, senza fare una piega. Lo stesso atteggiamento lo ebbe successivamente anche al lavoro: schiena bassa, poche parole, ma cortese, mai sgarbato.
Aveva vissuto in questo limbo per quasi trent'anni. La morte prematura di sua madre lo aveva improvvisamente catapultato nell'età adulta, senza saper bene da dove cominciare, ma con un'unica certezza: non voleva nessuno tra i piedi.

La sera della dipartita della madre, appena tornato dall'ospedale, si era sentito in dovere di scrivere qualcosa su Facebook e lo fece a notte fonda. I pensieri erano confusi e gli studi classici non l'avevano aiutato a concepire un epitaffio sufficientemente profondo, così si ritrovò a digitare una fredda frase di circostanza in cui ringraziava tutti per l'affetto e altre banalità. Probabilmente fu un segno del destino: non fece in tempo a schiacciare "invio", che arrivò il commento di Michele, un suo ex collega. Scriveva dalla Giamaica, dove era andato ad abitare pochi anni prima: aveva aperto un resort coi soldi guadagnati dalla vendita della sua casa di Milano.
Paolo non si aspettava certo una replica così immediata al suo post, ma riflettendo si rese subito conto che per l'altro dovevano essere più o meno le dieci di sera. Aveva sempre avuto l'abitudine di immaginarsi le persone al computer, nell'istante in cui condividevano notizie politiche o mentre commentavano acide le riflessioni di altri. E un'immagine gli entrò in testa come una palla da cannone: vide Michele sdraiato all'aria aperta, col portatile sulle gambe, mentre lanciava il suo "mi dispiace tanto, amico mio" nell'etere, attraverso l'oceano, fino ad arrivare in quel freddo paesino della bergamasca.
Mickey, come lo chiamavano gli amici, era anche lui di poche parole, ma possedeva la sicurezza di chi sa sempre quello che fa, anche in una circostanza azzardata come quella di trasferirsi dall'altra parte del mondo.

Colto da un raptus di intraprendenza mista a disperazione, Paolo confessò via chat alcuni suoi tormenti all'amico e gli chiese come poteva fare per arrivare in quell'isola che, vista dal mondo occidentale, sembrava un paradiso. In quella notte fuori dal tempo, aveva deciso che la sua vita sarebbe radicalmente cambiata e gli sembrò perfetto farla cominciare con un viaggio che non aveva mai neanche osato programmare.
Consapevole che con le luci dell'alba il coraggio sarebbe svanito, prenotò in tutta fretta un volo che gli sembrava abbastanza conveniente e, dopo un mese di inutili ripensamenti, partì.